Video rubrica “I Nostri Scrittori”– Puntata 2

Dopo il grande interesse mostrato nella prima puntata, ritorniamo a parlare di Giancarlo Fusco. Attraverso la lettura di un brano “La Chitarra dell’Imaginifico”, tratto da l’Italia al Dente (Sellerio Editore, […]

Dopo il grande interesse mostrato nella prima puntata, ritorniamo a parlare di Giancarlo Fusco. Attraverso la lettura di un brano “La Chitarra dell’Imaginifico”, tratto da l’Italia al Dente (Sellerio Editore, Palermo) e una video recensione de il “Risorgimento Indiscreto” (Bairon Editore).
Buona Visione!

Chiacchiere in Piazza – Terza edizione

Di seguito trovate il testo dello spettacolo teatrale Chiacchiere in Piazza organizzato in occasione della giornata dell’emigrante, dedicata a tutti quei laurentini lontani dalle sponde natie ma che ricordano con […]

Di seguito trovate il testo dello spettacolo teatrale Chiacchiere in Piazza organizzato in occasione della giornata dell’emigrante, dedicata a tutti quei laurentini lontani dalle sponde natie ma che ricordano con nostalgia la propria terra.

CHIACCHIERE IN PIAZZA

San Lorenzello tra storia e leggenda Festival della poesia, canzone e tradizioni laurentine dedicato soprattutto alle nuove generazioni: perché non dimentichino

Ultima rappresentazione

SAN LORENZELLO 6 AGOSTO 2004

SCENA PRIMA

CONDUTTORE: C’era una volta un paesino, uno come tanti, ma per certi versi speciale,

CONDUTTRICE 1: Tanto caro agli occhi e al cuore di chi c’era nato, ci viveva, lo amava,

CONDUTTRICE 2: Non solo un luogo del mondo, ma un mondo, se non il mondo:

Tutti—San Lorenzello!

Voce 1:

Per me San Lorenzello è dolce nome

di luoghi aprichi, d’albe e di tramonti

sereni, dove il cuore mio s’acqueta

tra visioni di verde e dove, calma,

trascorrer vorrei l’ultima stagione

nell’idillica pace virgiliana

di quei monti silenti tra stormire

di fronde e vol d’uccelli negli spazi

lontan dal mondo in sì profonda quiete…

e assaporare il senso dell’eterno.

CONDUTTORE: Così San Lorenzello nel canto trasognato dell’indimenticabile poetessa Maria Luisa d’Aquino.

CONDUTTRICE 1: Ma quando è sorto questo borgo così suggestivo e perché alle falde di un monte?

CONDUTTRICE 2: Una favola meravigliosa, ma anche storia, una storia lontana nel tempo, che ci porta al l’anno 864 dopo Cristo, quando i Saraceni, guidati dal feroce emiro Sawdam, imperversano nella Valle Telesina.

CONDUTTORE: Tanti riescono a salvarsi fuggendo verso i monti. Sul nostro Monterbano si rifugia il giovane Filippo Lavorgna con la sua famiglia prendendo dimora nella grotta di Futa.

Ma una sera…

Quadro primo

( Si oscura il palco, poi luce soffusa che illumina i volti di una zingara e di Filippo)             

Una zingara— Bel giovane, porgimi la tua mano, lascia che io legga il tuo destino.

Filippo— Fallo pure!

Zingara— ( la osserva) Che mano bella, interessante. ( Poi con voce profetica) : Vaticinio complicato, brutto, ma poi si schiarisce; non aver paura, sii forte, soffrirai molto, ma poi incontrerai l’amore, una donna bella, che ti darà felicità, forza per fondare un borgo che crescerà nel tempo e diverrà famoso.

Filippo— Le tue parole mi causano angoscia, paura, ma anche speranza. Grazie, zingara, non ti dimenticherò.

( ritorna la scena normale)

CONDUTTRICE1: Il vaticinio si verificò. Tutta la sua famiglia fu distrutta dall’azione venefica dei funghi.

 ———

 Quadro secondo

  (Luci soffuse. Filippo seduto, piange, compare una ragazza).

Filippo—Elodìa, sei tu? Perché sei qui?

Elodia— Filippo, perché ti disperi? Sono qui per starti vicino. Ci siamo incontrati spesso in questi giorni, lascia che io, in questa meravigliosa notte stellata di San Lorenzo, ti aiuti a compiere il tuo grande destino.

Filippo— (alzandosi) Elodia, sì anch’io ti ho seguita da giorni con interesse ( si abbraccianointanto appare una luce, come una stella… la fissano).

Filippo— Ecco la nostra stella, fonderemo per noi e per tanti nostri compagni profughi un borgo, una nuova dimora, la affideremo alla protezione del grande levita e martire di Roma Lorenzo. 

CONDUTTRICE 2 (anche fuori scena, attraverso microfono): Così nacque San Lorenzello per virtù di un mito.

( Ritorna la scena normale)

CONDUTTORE: Nustalgia d’i paes’

CONDUTTRICE 1: canzone dedicata agli emigrati laurentini di ieri e di oggi;

CONDUTTRICE 2: parole di Nicola Vigliotti, musica di Alfonso Guarino

Canto: Sant laurenz mij

CONDUTTORE: San Lorenzello nella poesia di Enrico Maria Fusco

Voce 2:

San Lorenzello mio ti voglio bene

nell’ombra sua t’accoglie Monterbano

ed il Titerno che si snoda al piano

ti culla con sì blande cantilene”

CONDUTTORE: Le poche case di Mura Filippo si moltiplicarono nel tempo, formarono un borgo che sotto la Signoria dei Sanframondo e dei Carafa, si arricchì di artistiche chiese, di un famoso convento di Padri Carmelitani, della Congrega della Sanità.

CONDUTTRICE 1 Ma qual è la nostra più antica chiesa?

CONDUTTRICE 2 Quella che sorgeva in Largo Avantisanti e che crollò col terremoto del 26 luglio 1805

CONDUTTORE: E in questa occasione accadde un miracolo: la Statua di S.Lorenzo, esposta sul tosello, rimase indenne tra tante macerie, con quattro travi che le pendevano sopra. Solo un dito si ruppe.

CONDUTTRICE 1 : Quel dito pagò la penitenza per tutti.

CONDUTTORE: Campana a sera di Rina Arace

Voce 3:

Quando la campana a sera

m’invita alla preghiera

sento il mio cuore

per te palpitare;

muove il mio labbro

un accento pio

per ringraziare il sommo dio

al mondo per me

non c’è paese più bello

di te, S. Lorenzello”

VOCE 4:

Ué! Ma chiss’ era nu’ paese addò s’ priava sulament’?

CONDUTTRICE: Ma no! S’ magnava, s’ b’veva, s’ furgiava sotto ai lampioni a petrolio, che, però, spesso non si accendevano, perché l’addetto Mastr’Agnello si faceva abbindolare dall’amica Za’Margiuseppa, che si faceva fornire troppo spesso di petrolio.

VOCE 4 ( anche fuori scena, attraverso microfono):

E a scura’succ’deun’ i uaij…

Canto: I’ vint’nou giugn

CONDUTTORE: Ma il 24 agosto 1924, i fumiganti lampioni di Mastro Agnello andarono in pensione. Arrivò l’illuminazione elettrica pubblica.In questa occasione il nostro poeta Pietro Paolo Fusco, così cantò lo straordinario evento in vernacolo cerretese:

CONDUTTRICE1: Come è beglie Cerrit agliumàt

cu l’agliettrica ‘mezza a la via,

pare addò aggg fatt i suldate

e cchiù beglie d’Napuglie sarrìa:

CONDUTTORE: ‘nnanze casa, madonna che abbaglie!

Uah! Che abbagl’, fratò pe Gesuele

hann miss nu cuascavaglie

ca fa luce pe cent cannele.

 CONDUTTRICE 2 E pe tutt è gliu stesse splennore

da pe tutt te po’ cunsulà,

dall’addagl’ a gliu cuape da fora

veramente se po’ passià

 CONDUTTORE: I agg’ ditte a muglierma, Carmena,

d’assogiarme all’illuminazione,

e m’ha ditte ca è meglie a cannela

pe paricchie e deverse ragione;

CONDUTTRICE 1: ca, i che saccio, dentra l’ogl s’ammolla

i capigl’ e s’allecca le deta,

e si manca, s’arroste a braciola                   

CONDUTTORE: Patratè! Che ragione so cchesse

de muglierma?, che pozz’ arraggià!

Song n’ome de scienz’ e prugresse,

teng i puezz, e ma ogl’ accattà.

Momenti della vita Laurentina

Mmmez’a chiazza

(sono seduti : Ciccio Lavorgna, Raffaele Ruggieri, Ciccio Saracco e Raffaele Mastracchio)

CONDUTTORE: Centro della vita laurentina fu sempre il piccolo largo detto: Mmeza a chiazza, dove sostavano tipici personaggi locali. Eccone alcuni descritti in versi dal poeta –fanciullo Pietro Paolo Fusco:

CONDUTTRICE 1: il farmacista, detto anche “lo spezziale” (indicandolo).

Voce 5:

Ciccio Lavorgna

Uomo basato

Fuggite quando

Voi lo vedete

Star col cappello

Seduto o in piedi,

non come al solito,

più rialzato.

Allora è segno

Che sta incazzato.

CONDUTTRICE 2: Chi è quell’omone che sta sempre  come una statua al centro della piazza, perennemente con la pipa in bocca?

Voce 6:

Se ben guardate

lo status quo

Raffèle il Massimo

dei sopracciò,

osserverete

nei detti suoi

spesso confondere

il tu col voi.

CONDUTTORE: L’altro, seduto in angolo, è Ciccio, privo della vista di un occhio; ma quel birbante, per avvalorare le sue numerose bugie, spergiura così sull’occhio cieco:

Ciccio—: Pozza perd’ a vista d’ chist’ occhie si dicu a bucìa.

Voce 7:

Ma Ciccio Saracco

Giù di bugie

Scarica a sacco,

e per far credere

ciò che ha narrato

giura sull’occhio

 che tien cecato

CONDUTTRICE 1: Talvolta Ciccio raccontava ai piccoli, e anche ai grandi, favole, i’ cunt’, sparandole grosse.

Ciccio— C’era ‘na vota nu re che t’néva ‘na carrozza cu tricént cavagl’…

Tutti—Ohé, cala, cala…

Ciccio—E va béh, si n’n er’n tricent’, puteun’ iess’duicent!

Tutti— Cala, cala..

Scena libera con alterne battute : Allora cent… cinquanta, trenta ..dieci ecc.

Ciccio.–. Uè. Mo m’avet’ propria scucciat’: E vvà bbon’ er’n tre… un’, iat’ a fa…

CONDUTTRICE 2: Lo vedete quell’altro? E’ un emerito scansafatiche che, per vivere, ricorre a tutte le risorse:

Voce 8:

Rafèl Mastracchio

La gloria antica

Nemico acerrimo

della fatica:

nelle sue tasche

più che sovente

spira continua

la bora algente.

Fatto ha la guardia

municipale

Soprintendente

degli animali,

ha fatto il comico

magazziniere

in una scuola

d’arte e mestieri.

Or finalmente

 fa il daziatore

Ma, pur pensate,

che è lavoro!

CONDUTTORE: La vita laurentina cantata da Raffele Di Lucrezia                                                   

Voce 9:

Queste casette che non han pretese

racchiudon tanti cuori generosi

gentili, ospitali ed affettuosi

semplici come rose d’ogni mese

CONDUTTRICE 1: Le strade di San Lorenzello nella poesia di Michele Lavorgna

Voce 10:

Sono per le strade

e per la strada

lungo il greto

del Titerno

sosto.

Scendo nel greto

do passi

su pietre,

la pietra annosa,

instabile

 levigata

 provata dal Titerno.

CONDUTTRICE 2: A San Lorenzello, fu sempre fiorente l’attività artigianale di stovigliai e di maestri ceramisti.Questi, nel Settecento resero celebre il nostro paese. I Festa, i Fraenza, i Di Leone,divennero famosi nel Regno di Napoli, lavorando anche nella Real Fabbrica San Carlo di Caserta, fondata da Carlo Terzo di Borbone.

CONDUTTORE: Nelle nostre botteghe si formò il grande Nicola Giustiniano,che ebbe i natali a San Lorenzello.La tradizione continua, gloriosa, ad opera dei bravi maestri locali.

CONDUTTRICE 1 A San Lorenzello fu anche fiorente, almeno fino ad alcuni decenni fa, l’attività artigianale di: sarti, calzolai, falegnami, fabbroferrai, carresi, canestrai, pipari che impiantarono bottega, specie lungo l’attuale via Roma, già via del Carmine.

CONDUTTRICE 2: Nei periodi primaverili ed estivi i maestri artigiani e i numerosi discepoli lavoravano davanti alle botteghe.

CONDUTTORE: Vogliamo ricordarne qualcuno?

CONDUTTRICE 1: Eccone uno Mastro Liborio: una strana figura di calzolaio-filosofo. Un giorno un maiale infuriato, uscito da uno dei numerosi mandrilli di Vico Panella, infilò il deschetto ( cioè i’ bancaregl’) che era lungo Via Roma, e lo trascinò per un bel pezzo, mentre i “discepoli” si spellavano dalle risate, Mastro Liborio imperturbabile sentenziò:

Voce 4:

Aggia vedè addò và a mett’ puteca stà purcella.

 Tutti—Che bravo!

CONDUTTRICE 2: Purtroppo Liborio non fu sempre così imperturbabile: il 7 agosto, durante la festa di San Donato, irritato perché gettavano bucce di anguria nel suo campicello, rivolgendosi alla statua che, portata a spalle, appariva sulla porta della cappellina, imprecò:

Voce 4:

Embè i’ acchiappasse a San Dunat’ e i’ tagliass’ a cap’

CONDUTTORE: Ma subito ebbe rimorso di coscienza per aver offeso il Santo e la notte andò a gettarsi dal ponte di Sprecamuglièra!

Canto: Fraulina sta malata

CONDUTTORE: Un’altra nota bottega era quella di Mastro Silvestro, un sarto, medico magone, salassatore, allevatore di mignatte.

CONDUTTRICE 1: soleva dare anche consigli medici ricorrendo a cure empiriche.

CONDUTTRICE 2: quando qualcuno si lamentava per un forte mal di denti gli consigliava di fare uno sciacquo con la propria urina;

VOCE 4:

Piscia, biu, e sbubuteia.

CONDUTTRICE 1: Ma come sarto, lasciava a desiderare. Spesso, infatti, sbagliava le misure.

 (Scena dal vero tra il sarto e Solforio)

Solforio— Mast’ Salvé, che cacch’ m’ei fatt! St’ man’ch’ so tropp’ longh’.

Silvestro—Sulfò , ma n’n t’ preoccupà, stongh’ i’ ccà! ( inizia un violento tiraggio delle maniche).

Solforio— Sì Mast’ Salvé, ma m’ si fatt’ nu cuauzon’cu nu fundòn’ che m’arriva nganna!

Silvestro—Ué Sulfò. Ma tu vuò propria sapé a v’r ‘tà?

Solforio— Sin’ cacch’ a uogl’ propria sapé.

Silvestro—Ma t’ l’aggia propria dic’ ?

Solforio— Sin’ cacch, e dic’ e dic’!

Silvestro—Embé, ma i’ che c’ pozz’ fa si ‘pat’t t’ha fatt’ stort?

Solforio— Mio padre era un uomo bellissimo!

Silvestro—E allora n’n si figl’ a pat’t ma si figl’ d’ p…

Canto: Pascaglina a’ c’rratana

CONDUTTORE: . E che dire di un altro celebre personaggio di via Roma : il sarto –barbiere-organista della Congrega, Mastro Giovanni? Poteva capitare, che giunta l’ora delle funzioni in Congrega, lasciava il cliente anche a metà taglio dei capelli, si recava a suonare l’organo e cercava di tranquillizzarlo dicendo:

Voce 4:

N’n t’ preoccupà, torn’ subbt’, legg’t stu glibbr’.

Scena. Giovanni e Cliente

(Il cliente si siede, Giovanni gli mette l’asciugamano, poi gli chiede):

Giovanni— Come i’ uò barba e capigl’ d’ festa o d’ fatica? P’cché, tu l ‘sai, d’ festa costn d’cchiù.

Cliente— E fammigl’ d’ festa!

(Comincia ad insaponarlo e rasarlo)

Cliente— Mast’ Giuà, ma stu rasul’ m’rasta!

Giovanni— Ma come ti permetti ? Questo è un solingen, è a pell’toua che è tosta com’a na cuot’na!

( terminata la rasatura, Giovanni si reca nell’angolo, depone l’urina in vaso, poi torna e lava il viso del cliente il quale fa rimostranze e dice):          

Cliente— Mast’ Giuà, ma che staij facenn! Che cacch’ è st’unguent che m’abbrucia?

Giovanni— N’n t’ preoccupà, chess’è disinfettante, fa bben’ e t’ammorb’disc’ a pell’! 

Canto: Non piangere Esterina

CONDUTTRICE 1: Ci fu un momento della vita Laurentina in cui, specie i commercianti di vino, che lo esportavano con i carretti a Napoli, Pompei e altrove, brigarono con i politici per farsi nominare cavalieri. Ma uno spirito ameno fece circolare questi versi:

Voce 11:

Più che croce,

il vostro affetto onori

la stima vostra io vo’

per fregio mio:

chiamatemi amico

e mi sollazzo

che cavaliere…

e cavalier del c…

CONDUTTRICE 2: non mancò, anche allora, un momento in cui le tasse divennero molto gravose per cui qualcuno, parafrasando il poeta Parzanese, scrisse:

Voce 12:

Quando nacquer le tasse una voce

Mi diceva: la tassa è una croce.

Io piangendo la tassa abbracciai

Che per forza assegnata mi fu

Poi, pagai, pagai, pagai:

tutti pagan la tassa quaggiù

Vidi un tal fra verbali ed uscieri

Sotto il peso di cupi pensieri

Ed al figlio chiamato Silvestro         

Domandai: a che pensa papà?

Mi rispose: egli pensa al sequestro

Che gli toglie quel poco che ha.

CONDUTTORE: In periodo di quaresima giungevano nel paese i Missionari che preparavano il popolo alla Pasqua con prediche, penitenze, processioni durante le quali tante ragazze si coronavano di spine e pensavano di entrare in convento. Insomma era un evento straordinario, un momento mistico per il paese. La sera, in una chiesa gremita, i Padri si disciplinavano, cioè si battevano a sangue.

CONDUTTRICE 1: In una di queste sere i missionari invitavano coloro che erano in discordia tra loro, a salire sul palco, a due a due, per riconciliarsi ed abbracciarsi. Ma una volta capitò che…

( Scena: Missionario e Pietro Di Leone)

Missionario— Fratelli, pensate che dobbiamo morire e non ne conosciamo il giorno e l’ora, perciò, fate una atto di umiltà, di amore, di perdono. Il Parroco mi ha dato l’elenco di coloro che sono in discordia. Ora io li chiamo, in nome di Gesù, ed essi verranno su questo palco, dinanzi a Dio, si perdoneranno reciprocamente e si abbracceranno. Pietro Di Leone, vieni ti vuole Gesù!

Pietro (distratto e con la pipa in mano… un vicino lo invita all’attenzione…scena libera, poi di nuovo il missionario)

Missionario—Pietro Di Leone, vieni ti vuole Gesù!

Pietro—E che cazz’ uò!

CONDUTTRICE 2: Poi i missionari partivano e tutto ritornava come prima e i giovani cantavano

Voce 13:

Allèr’ allèr’ amant’

S’ n’ vann’ i Missiunant

S’ n’ vann’ a l’alba e n’ora

E nuia, senza fa rumor’

Turnam’ a fa gl’iamor’.

Canto: atturn a stu cuasin

CONDUTTRICE 1: Il periodo che seguì la Prima Guerra Mondiale fu contrassegnato a San Lorenzello da povertà, ma anche da         tanta capacità di sapersi contentare e gustare saporosamente quel poco che si aveva.

CONDUTTRICE 2: Si trascorrevano, perciò, serate meravigliose nelle ampie cucine delle case di campagna, misteriosamente illuminate da ceri, lumi a petrolio, e soprattutto da ceppi ardenti.

CONDUTTORE: Organetti, chitarre, trilli di mandolini, cori di voci rese più calde dal vino genuino che innaffiava porzioni di carne di maiale squarciato di fresco e ammannite con piccanti peperoni, cui faceva seguito a’ spasa d’ castagn’, ‘a vruulàra, struffoli al pepe e frutta secca.

CONDUTTRICE 1: Non mancavano i brindisi, le macchiette, le battute a doppio senso e altro .

Canto: I cuarr’ senza rot’

CONDUTTRICE 2: La notte di San Silvestro veniva eseguita cantata ‘A Maidunata da gruppi di sonatori di chitarra, mandolino, strumenti a percussione, che peregrinavano fino al mattino attraverso i casolari, ricevendo in cambio l’ ‘nfert’, ossia i doni, per lo più struffoli, leccornie natalizie, frutta secca, salami, formaggi ed altro che però venivano ritirati il giorno dopo.

Canto: ‘A maidunàta

CONDUTTORE: La serenata, invece, era il canto, in lingua italiana eseguito la sera precedente della festa onomastica, davanti alla casa del festeggiato che fingeva di non saper nulla e di non aspettare nessuno:

Canto: Tutti Uniti

CONDUTTORE: Non mancavano gruppi di giovani che, eccitati dal buon vino eseguivano canti più osè.

Canto: Vorrei una cameriera

CONDUTTORE: A mamma d’ luciella è una canzone piuttosto diffusa in Italia ma c’è una versione tipicamente laurentina

Canto: a mamma d’ luciella

CONDUTTRICE 1: Di virtù mimetiche i Laurentini non hanno mai difettato. Ma in questo periodo maestri impareggiabili della macchietta dialogata o cantata furono i coniugi Donato Masotta e Raffaella Cofrancesco.

Canto: Iat’ a’ diaul’ femm’n fé

CONDUTTRICE 2: Una simpatica canzone: Angioletta, fu immortalata dall’indimenticabile Lorenzo Porto

Canto: Angioletta

CONDUTTRICE 1: Un’altra indimenticabile figura . Ernesto Di Lucrezia rese celebre la canzone  Dodici cose

Canto: Dodici cose

CONDUTTRICE 2: Raffaele Di Lucrezia: fu autore di belle poesie e della canzone:

 Serenata perduta

I Dud’c’ mijs

Da tempo antico, e ancora oggi anche se non con cadenza annuale, la domenica precedente il Carnevale si svolge la suggestiva rappresentazione dei Dodici Mesi: un corteo di uomini a […]

Da tempo antico, e ancora oggi anche se non con cadenza annuale, la domenica precedente il Carnevale si svolge la suggestiva rappresentazione dei Dodici Mesi: un corteo di uomini a cavallo, raffiguranti, nell’abbigliamento e negli arnesi agricoli esibiti, i diversi         mesi dell’anno, si muove da una contrada rurale e raggiunge, attesissimo, il centro urbano.

Il corteo dei cavalieri è preceduto da un Volante o annunziatore che invita tutti all’allegria e da Pulcinella, la maschera immancabile nelle rappresentazioni carnevalesche campane, che cavalca un asino e che, lungo tutto il corso della manifestazione, si pone come mediatore tra gli attori, seriosi nel loro ruolo drammatico, e il pubblico di cui suscita l’ilarità con i suoi sberleffi, le battute picaresche, a doppio senso, e con il divorare un piatto di maccheroni, insozzandosi tutto.

Giunti in qualche piazza del paese, che funge da palcoscenico, e dispostisi in cerchio, con l’aiuto degli accompagnatori o guide dei cavalli, raccontano a gran voce, con cadenza musicale e vivacità cinetica e gestuale le caratteristiche atomosferico-fecondatrici dei singoli mesi.

A fine giornata banchettano consumando le vivande raccolte dai questuanti nel corso dello spettacolo.

Quando nel 1968 cercai di raccogliere alcune manifestazioni folk del paese, notai questa specie di recital agreste, o almanacco drammatizzato, come lo ha definito il Toschi: ne riportai alcuni brani nel mio lavoro monografico San Lorenzello e la Valle del Titerno, così come li avevo potuti cogliere attraverso la trasmissione orale, o leggere su manoscritti anonimi, gelosamente custoditi, a me gentilmente offerti da Biondino Fusco e Guglielmo Fraenza.

            Il Fusco affermava di aver fatto la trascrizione dei         Mesi nel corso di recitazioni alle quali aveva preso parte sin dagli anni successivi alla seconda Guerra Mondiale, notando che le prove, a suo ricordo, avvenivano in casa di Carmine Romano, Angelantonio Simone e, successivamente, altrove.

            Basandomi su questi pochi e non chiari elementi, espressi giudizi in parte da rivedere per quanto ora dirò.

            Mi ero accorto, comunque, che mentre i brani recitati dal Volante e da “Pulcinella Cetrulo” e quelli della chiusa finale, erano di fattura schiettamente popolaresca, quelli narranti i Mesi, pur tra evidenti trasposizioni e contaminazioni lessicali e metriche, operate via via nella trascrizione da padre in figlio, rivelavano invece un autore colto, dotato di apprezzabile vis poetica, la cui identità, però, non riuscii allora a         scoprire.

            Solo alcuni mesi addietro, un caso fortuito mi ha permesso di sciogliere l’enigma. Mi è capitata, infatti, tra le mani una raccolta di poesie edita nel 1833 dalla Stamperia e cartiera del Fibreno in Napoli, dedicata al marchese Basilio Puoti, in cui trovavo finalmente il testo originale dei nostri dodici mesi col titolo I mesi, autore il cerretese Andrea Mazzarelli (1764-1823): uomo di vasta cultura, letterato, poeta, poligrafo.

            Don Raffaele Fazzini, Arciprete della Collegiata di S. Martino Vescovo in Cerreto Sannita, alla normale registrazione di morte aveva aggiunto, tra l’altro, che non c’era stato campo culturale nel quale il Mazzarelli non si era cimentato ed egregiamente distinto e che era stato profondo conoscitore non solo del Greco e del Latino, ma anche dello Spagnolo e del Francese.

E’ sepolto nella citata Chiesa; sulla lapide tombale è scritto che fu l’ultimo poeta lirico della sua Gente, satirico, dolce, serio, compianto in morte perfino da Apollo e dalle Muse.

Stando al suo biografo e promotore dell’edizione postuma Nicola Ungaro: queste dodici canzonette furono scritte per recitarsi da alquanti giovani nel tempo di Carnevale… esse non sono opera studiata, ma la più parte furono composte all’improvviso (op. cit. p. 128).

            Ma a S. Lorenzello c’era un testo precedente più popolaresco, come ci farebbero pensare i versi declamati dal Volante e da Pulcinella, o invece queste strofe furono opera di qualche regista contadino che, introducendo i due         personaggi, volle dare al testo troppo aulico e colto un sapore più consono all’ambiente culturale e alla natura carnevalesca della rappresentazione?

            Al momento non saprei dare una risposta. Ritengo, invece, che i nostri Dodici mesi, per l’ispirazione bucolica ed agreste, per i versi brevi, dal ritmo di danza, per il linguaggio convenzionale, per l’umanizzazione della natura, ritratta nei minimi particolari con pazienza da miniaturista, per gli aggettivi esornativi, per la struttura metrica, richiamano tanto l’Arcadia, particolarmente le Canzonette del Rolli, descriventi le Quattro Stagioni.

Frequenti le espressioni di sapore carnascialesco; in Aprile: la gioventù, come il lampo, è fugace per cui va intensamente vissuta; in Ottobre: il dio del vino che toglie gli uomini dal duolo e da l’affanno, col suo vivido drappello – il gongolante Sileno, i lascivi Satirelli, le audaci Menadi – esorta i giovani e le donzelle alla gioia, all’ebbrezza, alla licenza, ad allontanare gli importuni e squallidi sapienti di ogni età.

Nel frequente invito rivolto dal Mazzarelli a gustare i prodotti della natura, si rileva, oltre alla preminente produzione del grano, del vino, dell’olio, fiorente pastorizia e abbondante la cacciagione: lepri, tordi, quaglie.

Ma i villanelli e le villanelle, le amabili forosette, i pastorelli dediti ad accordar le pive, popolanti i Mesi, immersi come sono in un’atmosfera idilliaca, appaiono frutto di esercitazioni bucoliche, di dotte descrizioni iconografiche, tanto lontane dalla dura e povera realtà contadina di quei tempi –         cui si fanno cenni fugaci – ignare, oltretutto, dei rischi provenienti ai raccolti dagli avversi, imprevedibili, incontrollabili eventi atmosferici.

Per quanto riguarda i costumi tipici del paese che sono stati beve individuati, ce ne interesseremo in uno studio di prossima pubblicazione.

Il travestimento degli attori-mesi è affidato al loro estro, anche se, grosso modo, si nota una certa corrispondenza tra la maschera ed il contenuto del brano poetico recitato.

Gli attori sono perlopiù contadini, giovani e anziani, di sesso maschile, tre dei quali si travestono da donna per rappresentare:

Aprile: la sposa, presente in quasi tutte le rappresentazioni del genere;

Maggio: una prosperosa pacchiana con in mano un mazzetto di rose;

Settembre: ‘a scarpétta, donna tipica di Pontelandolfo che indossa gonna lunga, grembiule, scialle ornato di frange e imbraccia una cesta d’uva.

Maschili i ruoli di:

Gennaio: contadino con giacca intessuta di palline bianche di ovatta, raffiguranti la neve, in mano un’ampolla di bel liquor pregiato;

Febbraio: lo studente (chissà perché!) con vestito classico, papillon, penna al taschino, borsa di pelle con libri a lato;

Marzo: contadino con giubbino di pelle, cappello a cilindro, aratro in miniatura nella mano; Giugno: contadino con panciotto, paglietta cinta di spighe di grano, dita protette da cannelli,

mazzetto di spighe in una mano, nell’altra il falcetto;

Luglio: contadino con paglietta, orciolo (sécinello) a tracolla pieno di vino, sorseggiato di tanto in tanto, e in mano la forca per rimuovere la paglia;

Agosto: cacciatore con fucile a tracolla e un canestro contenente un cocomero e un grappolo di uva moscatella;

Ottobre: contadino con paglietta, una botticella a tracolla, una scaletta (serviva a salire fino alla bocca dei tini);

Novembre: cacciatore che tiene nel tascapane un tordo e con le mani getta il seme;

Dicembre: contadino con lunga barba nera, mantello a ruota, cappello nero a larghe falde, nella mano l’uncino per afferrare alla gola il maiale.

I nostri Dodici mesi non presentano esplicite formule apotropaiche o propiziatorie, nè metafore sessuali, presenti invece nei brani recitati da Pulcinella e soprattutto nella chiusa di questo rito-spettacolo. Ne parleremo subito.

In Febbraio si evidenzia il contrasto tra concezione ascetica cristiana e quella godereccia del Carnevale: richiamo ai digiuni e penitenze, allora molto rigorosi nel periodo della Quaresima, vista come la donna sparuta e squallida che interrompeva la chiassosa festività carnevalesca e pretendeva di cangiare in viver aspro gli scherzi e le carole. Anche a San Lorenzello venivano celebrate le Quarant’ore, una forma devozionale che consisteva nell’esporre solennemente il SS. Sacramento nell’Ostensorio per quaranta ore distribuite in tre giorni consecutivi, con intento espiatorio per i peccati commessi durante il Carnevale.

Diversi anche i nostri Mesi da quelli più popolareschi di altri centri campani, eccetto quelli in lingua italiana di Foglianise che, pur tra errori e corruzioni, rivelano la stessa paternità dei nostri.

Circa la struttura metrica: i versi di Gennaio, Febbraio, Marzo, Aprile, Maggio sono costituiti da quartine di settenari, quasi sempre piani il secondo ed il quarto, sdruccioli il primo e il terzo, con schema ABCB; Giugno e Novembre: da quartine di ottonari, piani i primi tre, tronco il quarto, con schema ABBC; Ottobre: da sestine di settenari, piani il secondo e il quarto, sdruccioli il primo il terzo e il quinto, tronco il sesto.

Nicola Vigliotti

 

I Personaggi dei Dodici Mesi

Volante

Io sono volante,

festa di Carnevale,

festa di allegria.

 

Signori, uscite a divertirvi

con questa mia compagnia

di gaudio e di piacere.

 

La vostra cortesia,

con la nostra garibaldina,

che fa dissonare.

 

Dodici mesi sono questi,

indietro a me li porto

con indispensabili parole.

 

Pulcinella, mio seguace,

dammi conto di questi dodici mesi

e se qualcuno non si porta bene

pigliar lo voglio con questo bastone.

 

Avanti gennaio,

fatti sentire e portati bene,

se non ti porti bene

domani mattina ti mando via,

se non ti porti bene

domani mattina ti mando via

Puncinella

Ed io a crepa pancia

godo altre sostanze,

ho tre sorelle:

amano me con eccellenza.

 

Primavera con i fiori,

ed io a letto con amore,

estate con sudore,

ed io consumo.

 

L’autunno benchè sia triste,

mi favorisce del buon vino,

poi ce ne andremo al fuoco;

 

col vino e con l’arrosto,

berremo un bidone,

giudicheremo l’inverno

e mi mangio i maccheroni.

I Mesi

GENNAIO

Della sovrana Eclitica

compiuto il corso intero

ritorna il sole a correre

il gemino Emisfero.

 

All’anno che rinnovasi

io primo apro le vie,

e i mesi corron celeri

poscia su l’orme mie.

 

Le nevi e i campi imbiancano,

io stommi al fuoco allato,

e ‘l pigro gelo io tempero

col bel liquor pregiato.

 

Ma il riso e i giuochi seguono

in mille liete forme,

festeggia a gara il popolo

de l’ebro Dio su l’orme.

 

E mentre gaio ed ilare

disserro le auree porte,

porto a’ mortali augurio

d’una felice sorte.

 

 

FEBBRAIO

 

Corro il più breve stadio

fra miei compagni, e intanto

anch’io tra lieti cembali

entro, e tra il suono e ‘l canto.

 

Tra i balli e tra le crapole

la gioventù folleggia

Bacco per tutto invocasi,

Bacco d’intorno echeggia.

 

Né perché il verno esercita

la moribonda forza

ne’ petti altrui la vivida

dolce soave ammorza.

 

Ma il crapular festevole

Vegg’io talor turbato,

a me silenzio intimasi

e ‘l tutto è già cangiato.

 

Donna sparuta e squallida

mi si fa incontro e vuole

che in viver aspro canginsi

gli scherzi e le carole.

 

Ed io confuso e attonito

sferze e cilici abbraccio,

e tra digiuni e lacrime

finisco il corso, e taccio.

 

   

MARZO

 

Il pigro Verno ascondesi,

si scioglie l’aspro gelo,

il dì, le notti agguagliansi,

splende più chiaro il Cielo.

 

La terra nel prolifico

addormentato seno

sente il calor, che vivido

dispiega il germe appieno.

 

Già l’arator sollecito

il grembo suo fecondo

di nuovi semi carica

con solco alto e profondo.

 

Già la cerasa pallida

di fior si veste e adorna,

la mammolina celere

ecco a fiorir ritorna.

 

Da l’Aquilon che adirasi

soffro talora oltraggio,

ma Febo ognor ristorami

col tiepido suo raggio.

 

E’ singolar mia gloria

de’ mesi infra la schiera

dar fine al verno rigido,

principio a Primavera.

 

   

APRILE

 

La dolce primavera,

l’alma stagion de’ fiori

nutrice degli amori

già lieta a noi tornò.

 

E a lo spirar di zefiro

su la nativa brina

la tremola marina

la rondine varcò.

 

Io lieta il crin m’infioro

sul margine d’un rio,

ed il diletto e ‘l brio

mi son compagni ognor.

 

D’amor già caldi guizzano

i pesci in mezzo all’onde,

gli augelli tra le fronde

s’infiammano d’amor:

 

Il pastorel, che lieto

uscì dal chiuso ovile,

torna con dolce stile

le pive ad accordar:

 

Ed io tra il vivo giubilo

de le create cose

intenta son le rose

ognora a vermigliar.

 

Leggiadri giovinetti,

donzelle avventurate,

passar deh! non lasciate

il fior di gioventù.

 

Ogni stagion rinnovasi,

rinnovasi ogni campo;

la gioventude è un lampo

che non ritorna più.

 

   

MAGGIO

 

Venite al rezzo amabile

dei faggi, e degli allori

voi Ninfe, voi pastori

giulivi a riposar.

 

Lieti frondeggian gli alberi,

lieto verdeggia il prato,

scorgonsi in ogni lato

i campi verdeggiar.

 

Gli augelli a gara temprano

amorosetti accenti,

i rivoli correnti

vi parlano d’amor.

 

Le aure soavi e garrule

fan mormorar le foglie,

e tutto par che invoglie

a viva gioia il cor.

 

E l’Usignol, che armonico

ne sta cantando all’ombra

l’alme più schive ingombra

di tenero desir.

 

Ride dipinto l’Etere

di lucido zaffiro,

ed il celeste giro

più lieto fa apparir.

 

Tutto si allegra e adornasi

e si rinnova il mondo;

fa il mio poter giocondo

natura giubilar.

 

Maggio v’invita celeri,

correte a lui mortali,

un dolce oblio dei mali

a voi saprà recar.

 

     

GIUGNO

 

Or che al fine a noi s’invola

la stagion‘alma di Flora

ogni campo intorno indora

il prolifico calor.

 

Ed io cinto il crin di spighe,

dono a ognun pregiato e caro,

la sua messe già preparo

all’adusto mietitor.

 

L’amorosa forosetta

più non orna il crin di rose,

ma le spighe ponderose

già s’affretta a radunar;

 

ed al rustico affannoso

rozzo cibo appresta intanto,

che tra l’ombre a un rivo accanto

va la fame a ristorar.

 

Io superbo fra compagni

vado pur d’eccelsi onori,

chè se April dà erbette e fiori,

rose Maggio e frondi dà;

 

io di Cerere ministro

apro a voi più bel tesoro

per sostegno per ristoro

dell’afflitta umanità.

   

 

LUGLIO

 

Sotto la ferza fervida

del sol la estiva arsura

cresce, e per tutto spegnesi

già la natìa verdura.

 

L’aurette e i venti tacciono

taccion le note usate

degli augelletti, e assordano

l’aria cicale ingrate.

 

E già il villan, che il provvido

lavor compiuto mira,

i doni almi di Cerere

su l’aie ammucchia e tira.

 

Ed io mi sto benefico,

ognora a lor d’intorno,

e quando il grano avventano

discinti a mezzo il giorno;

 

qualche aura io fo che destisi

a lor propizia: intanto

la villanella il fervido

calor tempra col canto.

 

Venite, o Ninfe, a immergervi

entro a le gelid’onde,

mentre che fiamme versano

le arse campagne bionde.

 

Io con montane fragole

a l’ombre di un alloro

e col liquor di Bromio

vi porgerò ristoro

 

di colà uscendo; e provvido

farò la vostra pace.

Non turbi con insidie

Satiro alcun procace.

 

 

 

 

AGOSTO

 

Segue col raggio ignifero

la fervida stagione,

e Febo dal Leone

fiamme versando sta.

 

Ma ne veng’io benefico

co’ doni miei graditi,

e vi fo dolci inviti

con dolci frutti già.

 

Tra verdeggianti pampani

quell’uva moscatella

oh! quanto è lieta e bella

al gusto ed all’odor.

 

Quel vivido cocomero

oh! qual racchiude in seno

di bel sapor ripieno

fresco soave umor.

 

Già il cacciator sollecito

della pedestre quaglia

col piè la fuga agguaglia

per quella insidiar.

 

E colla zampa in aria

il fido can sagace

a lui fa cenno, e tace

e stallo ad aspettar.

 

Della stagion di Bromio

io nunzio sono al fine,

e con soavi brine

tempro talor l’està.

 

E già tra lieti crotali

quello appressar vegg’io;

vi annunzio al partir mio

contento e ilarità.

 

 

 

SETTEMBRE

 

Ecco settembre: spirano

di autunno aure più grate,

le viti ecco rimiransi

da grappoli ingemmate.

 

Spiega dal ciel più docile

omai suoi raggi il Sole,

e al dì la notte agguagliasi

su la terrestre mole.

 

Il villanel sollecito

tra corbe e tini appresta

la misteriosa fescina

di vimini contesta.

 

Della stagion pomifera

raccoglie i doni intanto,

e da sue cure provvide

gloria egli attende e vanto.

 

La villanella giubila,

che vede i giuochi e ‘l riso

tornar con lieto augurio,

con gaio allegro viso.

 

Oh forosette amabili,

il tempo è già vicino:

Amor fra le vendemmie

scherza col Dio del vino.

 

   

OTTOBRE

 

Tra le vendemmie e i torcoli,

gioioso ebrifestante

tra voi già Bacco inoltrasi,

correte a lui davante,

donzelle, allegri giovani,

il Nume a salutar.

 

Ecco Silen che gongola

sul placido asinello,

ecco i lascivi Satiri

in vivido drappello,

ecco le audaci Menadi

lui liete accompagnar.

 

Io che vi porto il gaudio,

forier del Dio di Pace,

già sciolgo alla licenzia

ardito il labbro audace;

lungi importuni e squallidi

sapienti di ogni età.

 

Si odan tra lieti grappoli

cantar non pugne ed armi

ma lieti ausoni cantici,

ma fescennini carmi:

viva quel Dio benefico

che ‘l riso al mondo dà.

 

Ride natura e allegrasi

a la stagion diletta,

si ode cantar festevole

la vaga lodoletta,

tordi e fringuelli veggonsi

tra gli alberi girar.

 

Mentre che i don di Bromio

ne’ tini accolti insieme,

tinto di mosto il ruvido

villano, e pigia e preme,

ed a le vispe giovani

scherzoso sa insultar;

 

io tra compagni gloria

merto che guidan l’anno,

io son che tolgo gli uomini

dal duolo e da l’affanno,

il gelo e ‘l caldo io tempero

col dolce mio liquor.

 

 

Io tra le regie tavole

porto la gioia e ‘l riso,

ristoro a mensa semplice

il contadino assiso;

tutti a me dunque rendano,

qual mi è dovuto, onor.

 

 

 NOVEMBRE

 

Poiché il riso e l’allegria

scherzò assai dell’uomo amica;

di più utile fatica

io ne vengo apportator.

 

De l’umor del ciel fecondo

di ogni suol ricolmo è il seno;

ed a fendere il terreno

chiamò il provvido arator.

 

Entro botti salde annose

io di ottobre il frutto aduno,

nè tralascio studio alcuno

per poterlo conservar.

 

E sebben la fredda bruma

cade, e a’ campi muti aspetto,

anch’io porgo altrui diletto,

i miei doni anch’io so far.

 

Quando il sole in sul mattino

fuga omai l’orror notturno,

io so il tordo taciturno

nelle reti far venir.

 

So gli uccelli peregrini

attirar con falso fischio,

che impacciati dentro al vischio

modo più non han di uscir.

 

Ma pur quell’ond’io vo altero

non è il labile contento,

che sparisce in un momento,

che durevole non è:

 

ma il mio pregio più verace

e che all’uom più giova insieme,

è che in terra io spargo il seme

il qual Cerere a noi diè.

 

   

DICEMBRE

Già del frondoso onore

spogliata è la campagna,

la neve alla montagna

comincia ad apparir.

 

Si appressa il verno rigido,

ed il pastor si accelera

entro del suo tugurio

il gregge a ricoprir.

 

E poiché tutto mira,

bianco il suo campo intorno,

fa il villanel ritorno

alla capanna allor.

 

E accanto al foco assidesi,

e o sta le corbe a tessere,

o con Licore e Fillide

a ragionar d’amor.

 

O a’ lepri insidie tende

entro le note fratte,

o spreme il caldo latte

entro del chiuso ovil.

 

O sta le olive a frangere

e a trarne il pingue ed utile

umor che serba provvido

poi con industre stil.

 

O tragge al suo destino

il ciacco ponderoso,

e intende poi festoso

a lieto banchettar.

 

Ma ecco che il volubile

anno sen va al suo termine,

quando la volta toccami

a voi saprò tornar.